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Incursione dei Mangiamorte ad Hogwarts

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    Holly Holst , 16 anni, Grifondoro, VI° anno

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    Alla fine, era arrivato anche il mio momento per il colloquio. Ero curiosa e sinceramente entusiasta di fare parte di quel progetto e di poter partecipare rivolgendomi ad uno dei professionisti che avrebbe potuto spiegarmi qualcosa sulla bellezza dell'insegnamento. Ero al sesto anno, io, e mi trovano in una situazione terribile per quanto riguardava la mia carriera. Intanto, ancora non ero del tutto sicura di voler mollare del tutto la mia vita nel mondo babbano. Mi sarebbe piaciuto rilevare il negozio di fiori e piante di mia madre, ma come potevo rinunciare così a tutta quella magia che fin dall'inizio mi aveva incantata. Essere erborista nel mondo magico doveva essere qualcosa di incantevole, che mi permetteva davvero di fare quello che volevo. Ma l'idea di poter insegnare le mie conoscenze e trasmettere la mia passione -o almeno provarci- agli altri era qualcosa che indubbiamente mi intrigava e mi incuriosiva. Non ero del tutto convinta, però, di esserne in grado. Diversi studenti mi chiedevano suggerimenti e aiuto su diversi argomenti ostici e sembrava che riuscissero a capirne qualcosa di più con il mio aiuto. Quindi forse qualcosa di buono riuscivo a fare e forse avrebbe potuto essere un buono sbocco lavorativo. Mi sarebbe piaciuto insegnare, ma dovevo capire cosa effettivamente richiedeva quel tipo di lavoro da me. Per questo avevo richiesto un colloquio con l'insegnante, che si sarebbe presentato a quegli orientamenti, per chiedere qualche informazione a riguardo. In realtà, non sapevo neanche cosa chiedere per l'esattezza, ma magari avrebbe potuto aiutarmi lui o lei che fosse. Quando poi mi avevano indicato quale fosse l'insegnante che avrei voluto incontrare, mi si era seccata la bocca, un po' come quando avevo visto anche il resto degli altri professionisti. Che cosa gli avevano dato da mangiare a quegli uomini per l'esattezza?
    In qualsiasi caso, il mio turno ero arrivato. Ero la prima in lista quella mattina. I professionisti iniziavano il colloqui alle 10, quindi, giusto qualche minuto prima dello scoccare dell'ora, avevo chiesto il permesso di assentarmi dalla lezione di incantesimi e mi ero alzata, dicendo a Sybil, al mio fianco, che avrei lasciato lì la bacchetta. Non mi sarebbe servita e sarebbe stato un impiccio. Fuori, i corridoi erano deserti. Era strano aggirarsi per una scuola vuota, sebbene fossi abituata alle ronde notturne. In pieno giorno, vedere quei posti liberti da qualsivoglia individuo era sempre strano ed affascinante al tempo stesso, come se potessi goderti la scuola per conto tuo. Scesi le scale, diretta ai sotterranei dove, nell'ufficio del prof di pozioni, mi attendeva l'insegnante, il signor Blake. Ero un po' nervosa di trovarmi faccia a faccia con lui, di percepirne le emozioni ed avere una conversazione così personale come la mia carriera futura con un estraneo, ma ero anche curiosa. Le due emozioni si contrastavano in me, mentre posavo il piede sul marmo dell'ingresso e lo attraversavo oltrepassando la Sala Grande, già pronta a scendere nei piani inferiori quando un rumore sordo, pensante ed improvviso mi riscosse. Mi voltai, volta alla sprovvista, quando notai le porte della Sala Grande spalancarsi in un tonfo potente. Mi fermai, sorpresa e scrutai oltre la soglia, vendendoci ciò che nessuno nel mondo magico avrebbe mai voluto vederci: un mangiamorte.

    #7F4E52 Parlato #cb9285 Pensato


    Edited by Avalon - 26/3/2021, 12:19
     
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    Nerissa Rosier , 37 anni, Mangiamorte

    "We go back to what we knew"

    Calma. L’aria era ferma, quella mattina, l’umidità stagnante, le nubi immobili. Il mondo attendeva. L’universo aspettava che finalmente la realtà tornasse a scivolare sui binari della giustizia. Ero scivolata fuori dal mio letto lentamente, lasciando che la seta mi accarezzasse la pelle, i capelli appena scompigliati ricadevano morbidi sulle spalle nude. Biondi. Mi ero concessa una doccia bollente, avevo asciugato i capelli ed indossato la vestaglia, con un lieve brivido di piacere quando il tessuto fresco incontrò la pelle arrossata dal calore dell’acqua. Freddo. Storsi il naso. Incamerai aria nei polmoni, raggiungendo il mio armadio. Nero. Era un giorno da nero. I vestiti erano scivolati sulla pelle elegantemente, mentre io, ad occhi chiusi, riordinavo le idee. Non farti prendere dall’entusiasmo, Nerissa! No. L’entusiasmo era per la plebe. Respira. Sorridi. Le labbra si erano curvate in una smorfia soddisfatta. Non dovresti farlo. Ed io invece lo farò, non prendo ordini da un mezzosangue. Schifo. Era tutto pronto, tutto perfettamente in ordine. Il ritorno di Aaron in Gran Bretagna era stato più utile di quanto avessi creduto, sfruttare quella conoscenza e portarla avanti negli anni iniziava ad avere i suoi frutti, lui, almeno, sapeva quanto il suo stato di sangue lo rendesse inferiore. Lui, almeno, non provava a guardarmi con superiorità. Folle. Respira. Avevo indossato il mantello ed ero uscita dalla mia camera alle nove e quarantacinque. In orario. Presi la bacchetta, lasciandomela scivolare sulle labbra ed inspirando il familiare odore del legno di ebano. Presto, bambina. La sfiorai appena con la punta della lingua, pregustando l’elettricità che scaturiva dall’asticella al solo attendere quello che stavamo per fare, poi riaprii gli occhi, inviando un rapido messaggio a Ravenna, così che sapesse che ero pronta. Poco importava che Ziegler non fosse stato d’accordo con noi, il suo scopo era stato raggiunto, avevo solo avuto bisogno di sapere da quale camino entrare, il resto l’avevamo fatto noi. Odiavo viaggiare con i camini, non mi piaceva sporcarmi. Scesi le scale, lentamente, raggiungendo il camino del soggiorno principale. Alzai lo sguardo verso lo specchio che lo sovrastava, storcendo il naso all’immagine che mi propose. No. Male. Alzai la bacchetta, puntandomela alla testa, quasi fosse un’esecuzione. Premetti contro la tempia. Non era necessario, ma mi piaceva. Sorrisi. Aprii gli occhi. Rosso. Meglio. Un rapido sguardo all’orologio, erano le nove e cinquantasette. Presi una manciata di metropolvere ed entrai nel camino, con una smorfia disgustata, prima di coprirmi il viso. Avrei fatto bruciare quelle scarpe a Kronk, una volta tornata. Sempre che ne fosse stato in grado. Feccia. Chiusi gli occhi. Hogwarts. Visualizzai il camino di cui mi avevano parlato e partii. Aprii gli occhi ed inspirai. Quella puzza di sudiciume e miscuglio di razze mi pervase prima che io potessi aprire gli occhi. Ero arrivata. Uccidili tutti. Scossi la testa. Odiavo dover fare tutto questo a volto coperto, ma ero abbastanza intelligente da sapere che solo gli idioti si fossero fatti smascherare, dopo la guerra e solo loro erano stati schedati quando il Signore Oscuro era stato sconfitto. Molti avevano persino rinnegato il suo nome, per salvarsi la pelle. Mi guardai attorno, uscendo dal camino ed attraversando la Sala Grande. Era deserta. Peccato. Iniziamo a giocare. Strinsi la bacchetta nella mano, puntandola verso le grandi porte. Depulso. Le porte si spalancarono ed io le attraversai. Non riuscii a trattenere una risata soddisfatta che andò ad infrangersi contro l’aria nel vedere una ragazzina. Giochiamo. Incarceramus. Le puntai la bacchetta contro, soffocando un risolino emozionato. Finalmente. Con l’effetto dell’incanto la giovane sarebbe stata immobile, ma non troppo, come legata da delle corde che le avrebbero impedito la fuga. La raggiunsi, a passo lento, godendomi ogni istante di quella vista, fino a che non arrivai ad averla a portata di mano, la allungai, afferrandole i capelli e tirandola verso di me, puntandole la bacchetta alla gola. Mi tieni compagnia, bambina? Feci scivolare la punta della bacchetta sulla sua pelle, mordendomi un labbro. Piano, devi fare piano. Oh sì, sarebbe stato lento.

    #ffffff Parlato #555555 Pensato
     
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    Quando leggevi le notizie, quando ti venivano raccontate, non si poteva sapere del terrore, della paura, della sensazione di vuoto che si creava al livello dello stomaco, di come ogni pensiero che scorreva nella mente veniva annullato, sublimato. Io neanche mi ricordavo a cosa stavo pensando prima che i miei occhi si posassero su quella figura scura, dal viso argenteo. Non avevo neanche avuto modo di ragionare, di chiedermi come fosse entrata, ebbi solo modo di notare una fiammata di capelli rossi, intensi, quasi surreali -per lo meno per come li avevo percepiti io- da sotto il cappuccio che la copriva ancora di più. L'istinto fu quello di proteggermi le spalle, andando a sbattere contro il muro alle mie spalle, mentre la mano destra era andata a cercare la bacchetta. Mi congelai e sgrani gli occhi quando mi ricordai di dove fosse la mia bacchetta, appoggiata sul tavolo di un aula di incantesimi piena di studenti, come tutta la scuola. Studenti ignari, quando l'unica a sapere di quell'incursione ero io. Mi concessi quel secondo di sconvolgimento, abbassando per un secondo lo sguardo laddove avrebbe dovuto esserci la mia bacchetta, prima di tornare a guardare quella figura. E io ora cosa potevo fare? La vidi voltarsi verso di me, in quella che fu una frazione di secondo, mentre prendevo fiato e schiudevo le labbra per lanciare l'allarme nell'unico modo che mi era rimasto: urlando. Ebbi appena il tempo di immettere l'aria nei polmoni, alzando il viso all'androne che avrebbe amplificato la mia richiesta d'aiuto quando ogni mio tentativo venne bloccato dal suo incantesimo. Mi sentii avvolgere come da sottili corde, che sfregarono contro la pelle, stringendo così tanto da togliermi il respiro. La mano che era corsa al fodero della bacchetta era stata bloccata sul posto, mentre la voce -la mia unica arma rimasta- mi resto bloccata in gola da una stretta lancinante, quell'incantesimo che non aveva lasciato nulla al caso. Immobile, impotente, mi ritrovai impossibilitata a muovermi, mentre guardavo quella figura avvicinarmisi. Prova ad urlare, ma dalle mie labbra uscì solo un ruggito roco, troppo debole per esser sentito da altri oltre che da quell'individuo. Cercai di fare un respiro più profondo, come per cercare di allentare la stretta di quelle corde, ma peggiorando solo la situazione, con altre strette a premermi addosso. Sentii la gola pungermi, ma non per le corde, quanto più per la paura. Avevo paura, mentre attorno a me l'eccitazione, il sadismo e una pazzia quasi inesprimibile mi vorticavano attorno, tenute distanti dal mio core solo da quella paura che era troppo grande per poter essere sovrastata o soffocata da emozioni altrui. Mossi solo lo sguardo a quella figura, puntandolo dritto negli occhi di chi c'era dietro la maschera, degli occhi azzurri ghiaccio, che sembravano illuminati da un fuoco folle in quel momento talmente tanto da sembrare surreali. Deglutii a forza, cercando di fare opposizione alla sua improvvisa stretta, tra i miei capelli. Cercai di strattonare indietro, con un gemito spaventato facendo solo sì che la sua mano stringesse ulteriormente e mi facesse reclinare appena all'indietro la testa. Sentii la punta della sua bacchetta puntata alla gola e mi si spezzò il respiro. Cosa potevo fare? Ero bloccata lì con quella che doveva essere una donna, dal leggero sentore di profumo che mi aleggiava attorno, ed ero l'unica a sapere che il castello era sotto attacco. Era solo lei? Aspettava qualcun altro? Avrebbe aperto le porte ad altri mangiamorte? Qualsiasi cosa fosse lì a fare, solo io potevo fare qualcosa e l'unica cosa che potevo permettermi era intrattenerla, per impedirle -per quanto possibile- di portare a termine qualsiasi compito fosse lì a compire, finchè qualcuno non si fosse accordo, mi avesse sentito o fosse passato per di lì. Mi stavo mettendo nelle mani della Fortuna, ma io avrei fatto quando possibile per evitare l'inevitabile. Alle sue parole, quindi, che mi disse con tono mellifluo, quasi mi stesse davvero chiedendo di giocare, risposi con una smorfia: -Vai all'Inferno- sussurrai con disprezzo, sdegno ed odio, con quanta forza mi fosse permesso dalla stretta attorno al collo che si strinse per un attimo quando mi sporsi appena per sputare addosso a quella maschera schifosa, che nulla portava se non distruzione e paura. Tenni lo sguardo fisso in quello di quella mangiamorte, quasi a sfidarla, mentre la paura non mi bloccava, ma mi esponeva ancora di più al pericolo, affrontandolo. Se in natura esistevano tre modi per gestire un pericolo, il mio non era la fuga, non era l'immobilità, era l'attacco. E fu in quella circostanza, per la prima volta nella mia vita, che ebbi modo di constatarlo.

    #7F4E52 Parlato #cb9285 Pensato
     
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    C’era un fascino intrinseco nella paura. Le pupille che si dilatavano, il corpo che reagiva tutto insieme, lasciando al cervello il compito di impazzire. Lui, che sovrastava tutto e si credeva superiore ad ogni altro reparto del corpo, alzava bandiera bianca, inutile, incapace di dare comandi sensati, finendo per farti cadere sempre più nella sua stessa trappola. O nella mia, in quel momento. Avevo scelto con accuratezza quale incantesimo usare, per bloccarla, perché anche io avevo diritto di divertirmi un po’, no? Che divertimento ci sarebbe stato se lei avesse urlato a pieni polmoni ed avesse fatto finire così il mio gioco? O se invece la sua voce non avesse prodotto alcun suono ed io non avessi potuto sentire quel rantolo di dolore che tanto mi aveva elettrizzata? Nessuno pensava mai a giocare, in quei casi. Pazzi. Ad ogni passo, inspirai l’aria attorno a me, impregnata sempre più della paura di quella ragazzina, inerme, che mi guardava come se avesse incontrato il suo peggior incubo, immobile nella sua inutilità. Mi passai la lingua sulle labbra, cercando di assaporare quel momento, sperando di sentirlo contro il palato. Ruggine e fumo. Ridacchiai appena, quando la sentii tentare un grido, con l’unico risultato di sembrare una gallinella senza testa. Sciocca. Mi avvicinai, quindi, affondando una mano nei suoi capelli per strattonarla e tirarla verso di me, puntandole subito la bacchetta contro la gola. Riuscivo a vedere le vene battere contro la pelle chiara della giovane e dovetti mordermi un labbro per resistere alla tentazione di sentire il sangue che scorreva sotto quei delicati strati. Il corpo umano era così fragile… Mi sarei risparmiata, avrei fatto la brava, se lei non avesse parlato. Se quell’arrogante non avesse reagito. Uccidila! Risi. Una risata che venne dal profondo del mio cuore e che sentii vibrare nel petto, mentre si espandeva contro l’orecchio della ragazzina. Oh, allora sì che vuoi giocare. Mi piacevano le prede difficili. Non persi tempo a pulire la maschera, odiavo doverla portare e accettavo di farlo più per necessità che altro. Però afferrai il viso della ragazza con la mano che prima era sui suoi capelli, stringendo forte la mascella con le dita, conficcandole le unghie nella carne, affinché aprisse la bocca. Tagliale la lingua! Zitta! Mi morsi un labbro. Non parli più? Chiesi, con voce cantilenante e stringendo ancora più forte il suo viso. Feci un paio di passi in avanti, facendola arretrare, probabilmente solo per farle sentire quanto impotente fosse davanti a me. Avrei potuto schiacciarla come un insetto, ma mi serviva. E nel frattempo dalla sua gola la bacchetta era salita al suo viso, lasciando una scia rossa, calda, come se lei non stesse riuscendo a tenere a bada l’euforia. Oh, buona cara, arriverà il tuo momento. E con un ghigno sulle labbra decisi che il piano poteva aspettare un paio di secondi. Nerissa voleva giocare. Così spostai l’asticella lignea sulle sue labbra, per poi superarle, fino ad arrivare a puntare dentro la sua bocca ancora spalancata tra le mie mani. Inspirai a fondo quel momento, il brivido familiare lungo la colonna vertebrale, quell’elettricità che mi attraversava e si rifletteva nei miei occhi e che presto avrebbe preso vita attraverso l’ebano che tenevo stretto tra le dita. Crucio.

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    C'era qualcosa di quasi incredibile in quella situazione; mi trovavo quasi a non crederci, mentre l'incantesimo, che mi stringeva in quella costrizione era tangente e vera e quasi sentivo che mi tagliava attraverso i vestiti e la pelle sottostante. Non riuscivo a crederci, ma allo stesso tempo non riuscivo a trovare indice che quello fosse solo un brutto sogno. E comunque, non sarei mai stata in grado di immaginarmi una cosa del genere. In vita, mi ero resa conto, di non aver mai davvero provato la vera paura. Solo in quel momento, quando avevo osservato quella figura mascherata avvicinarsi a me, incapace di urlare o di muovermi avevo assaggiato per la prima volta la paura, il terrore puro, non solo per me stessa, ma per tutti quelli che mi stavano attorno, dentro quella scuola. Aveva provato a dare l'allarme, ci avevo provato con tutto il fiato, ma quella corda invisibile stringeva troppo attorno alla mia gola. Quindi avevo provato a ribellarmi, alla stretta che quella figura aveva esercitato su di me, avevo reagito, dandole quasi un motivo per intrattenersi lì con me e non addentrarsi per la scuola, alla ricerca di altre vittime. Dovevo essere io, inevitabilmente, e dare il tempo agli altri per mettersi in salvo o che so io. Quindi la sfidai, reagii, sapendo già di doverne subire le conseguenze. Mantenni, tuttavia, lo sguardo fisso nel suo, come se così potessi prevederne le mosse, per prepararmi, mentre lei si lasciava andare ad una risata che mi riverberò lungo i nervi, quasi stordendomi il cervello. Trattenni, poi, il fiato, nel sentire la sua morsa spostarsi dai miei capelli al mio viso e stringere e affondare le dita talmente forte che sentii la pelle lacerarsi e graffiarsi appena a quella stretta, mentre la mandibola cedeva sotto la pressione -applicata nel punto giusto- facendomi schiudere la bocca inevitabilmente. Aggrottai le sopracciglia e mii lamentai; faceva male, ma non avevo modo di reagire mentre quella stretta si faceva sempre più forte e le unghie penetravano ulteriormente nella pelle. Cercai nuovamente di divincolarmi da quella stretta, mentre lei mi costringeva a fare un paio di passi indietro, traballanti e brevi a causa dell'incantesimo che ancora mi bloccava. La sua mano era talmente salda sulla mia faccia che mi aveva quasi impedito di inciampare a terra quando arretrai. Inspirai, prendendo aria dalla bocca, quando sentii la punta della sua bacchetta graffiarmi il collo in una scia bollente, che sembrò ustionarmi la pelle, risalendo alle mie labbra. A quel punto, il mio cuore aveva cominciato a pompare alla velocità della luce, mentre il mio corpo aveva bisogno di ossigeno che non riuscivo ad immettere abbastanza a causa di quella stretta attorno al collo che lasciava passare troppa poca aria. Avevo, perciò, il respiro corto ed il petto si alzava ed abbassava, compresso contro le strette del suo Incarceramus. Cercai di divincolarmi ancora e ancora, muovendo la testa, ma senza riuscire a niente, provando di nuovo ad urlare, quando sentii la bacchetta oltrepassare le labbra ed entrarmi in bocca. Ebbi un conato, che, però, non respinse quell'intrusione. Sentii le lacrime salirmi agli occhi, mentre il mio corpo cercava di cacciare ancora e ancora quel corpo estraneo, mentre vedevo la soddisfazione montare nello sguardo di quella folle figura. Poi il cuore si fermò, così come il respiro, mozzati dalla singola parola che, nella frazione di qualche secondo, il mio cervello ebbe modo di registrare: Crucio.
    Non avevamo ancora avuto modo di studiarle, le maledizioni senza perdono, ma ogni tanto quelli del settimo anno si godevano a raccontare ai più piccoli cosa fossero. Dicevano che la peggiore fosse l'Avada Kedavra, ma io non ne ero mai stata convinta. Forse -per assurdo- era la più compassionevole delle tre. E quella che più mi terrorizzava era quella che mi aveva riservato quella Mangiamorte. Un dolore inconcepibile, disseminato in tutto il corpo, in punti che neanche credevo di avere dentro di me. Un dolore completo ed assoluto, immenso, fatto di coltelli bollenti conficcati fin dentro le ossa, che venivano sbriciolate, muscoli dilaniati, tendini e legamenti attorcigliati e stretti come corde di una nave, la pelle che piano piano veniva staccata dalla superficie sotto stante, il cuore, i polmoni e tutti gli organi ridotti stritolati, aperti in due, graffiati, tagliati e pestati, il dolore del gelo e del fuoco, tutto insieme. E quando credevi che quello fosse il massimo del dolore possibile, esso peggiorava e obnubilava e ottudeva i sensi, lasciandoti, però, la possibilità di sentire ogni singolo centimetro del tuo corpo squarciarsi. Cedetti sotto quel dolore, mentre la stretta della mano della mangiamorte sul mio viso diventava una carezza in confronto e cercavo di reagire, per poi cedere nuovamente. Sembrò durare in eterno, come se fossi stata spedita all'inferno e ci fossi dentro da milioni di anni, a bruciare. A momenti neanche capii se fossi svenuta o se fossi riuscita a restare cosciente, mentre la stretta attorno al collo mi impediva di riversare all'esterno, tramite le urla quel disumano dolore. Era incredibile, non ci potevo credere, ma ero lì e non sapevo per quanto ancora ci sarei restata.

    #7F4E52 Parlato #cb9285 Pensato
     
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    Nerissa Rosier , 37 anni, Mangiamorte

    "We go back to what we knew"

    Avevo delle preferenze anche io, ovviamente, come tutte le persone sane di mente che si rispettano. La mia maledizione senza perdono preferita era l’Imperio, era pulita e lasciava le persone spesso mentalmente distrutte, ma dovevo ammettere di avere un certo debole anche per la Cruciatus. Quello che non era chiaro, dal mio punto di vista, era il perché dovessero essere “senza perdono”. Erano incantesimi come altri, alcuni persino meno mortali di quelli usati dagli stessi Auror, ma si sa, la storia la fa chi vince e nell’ultima guerra – purtroppo – non eravamo stati noi. Ad ogni modo, il fascino di una Cruciatus lanciato per bene era tutta una storia diversa rispetto ad un banale incantesimo. Quel tipo di maledizione era forte e necessitava che ogni fibra del tuo essere avesse bisogno di lanciarla. Forse per questo facevano così paura, perché non ci mettevi solo la tua intenzione, in quell’incanto, ci mettevi la tua anima. E per Salazar se c’era la mia! Sentivo il sangue ribollire sotto la potenza che si stava liberando dalla mia bacchetta, eccitata dallo sguardo di terrore della ragazzina, inerme. Oh mi sembrava quasi di percepire le sue ossa che cedevano, i muscoli che gridavano pietà mentre venivano dilaniati dal potere di quella magia. Una magia che era tutta nella sua testa, perché il suo stupido ed inutile corpo era sano e salvo, per quanto fosse possibile standomi così vicino. Ma era la sua mente che avevo colpito e non c’era niente di meglio che una buona dose di paura, per preparare una persona a subire una maledizione di quel tipo. Il terrore inibiva la concentrazione, confondeva i sensi e allo stesso tempo amplificava ogni percezione. Tutto sarebbe stato amplificato sotto la vigile analisi di una marmocchia in panico. Anche il dolore. Lasciai che la mia risata soddisfatta riverberasse un po’ più forte nella stanza, mentre lei lentamente si accasciava. Non mi preoccupai di tenerla, semplicemente ritrassi la mano che le teneva il viso, lasciandola cadere a terra. Ops. Già finito? Beh, me lo sarei dovuto aspettare da una bambina. Peccato. Mi passai la bacchetta sulla lingua, come ad assaporare le ultime scariche di energia che aveva a disposizione, in cerca della mia personale dose di quel dolore tanto intenso, poi mi chinai su di lei, puntandole la bacchetta contro in un rapido gesto che disegnò una linea, a partire dal suo collo, fino al suo braccio. Diffindo. Pronunciai, piano, per lacerare il tessuto della sua divisa, così da esporre la pelle della giovane a me. Oh sì. Respirai a pieni polmoni, pregustando il momento che sarebbe seguito. Potevo già sentire l’odore del sangue darmi alla testa. A breve l’effetto dell’incarceramus sarebbe svanito e quindi mi sarei dovuta sbrigare, per evitare inconvenienti poco piacevoli. Puntai la bacchetta contro la sua clavicola ed estremamente lentamente, con lo stesso incantesimo di poco prima, iniziai a descrivere sulla sua pelle il Marchio Nero. Buona, bambina, abbiamo quasi finito. Risi, bloccandola a terra con l’altra mano, prima che potesse fare qualcosa per sfuggirmi. Fu a quel punto, mentre ammiravo l’esito della mia opera d’arte, che decisi di metterci del mio. Una risata folle mi si liberò dalle labbra, dopo aver riposto la bacchetta ed essere andata con la mano contro la pelle dilaniata della giovane, premendo forte affinché di impregnasse di sangue. Un ronzio nella testa. Silenzio. Oh sì. Calma, Nerissa. Aprii gli occhi, socchiusi appena nel sentire il suo sangue tra le dita. Poi la lasciai lì, incurante di tutto il resto, senza nemmeno sentire se stesse parlando o meno. Mi diressi verso la porta della Sala Grande e con la mano sporca del suo sangue scrissi Siamo tornati. Mi voltai un altro istante a guardare la mocciosa, con lo stesso ghigno folle di poco prima, per poi chiudermi le porte della sala grande alle spalle e tornare rapidamente al camino con il quale ero venuta. E questo sarebbe stato solo l’inizio, era una promessa.

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    Holly Holst , 16 anni, Grifondoro, VI° anno

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    Oh, non mi sarei mai più lamentata dei miei mal di testa, di Sybil che mi pizzicava il braccio per attirare la mia attenzione o dei piccoli graffi che mi facevo quando potavo le piante. Non mi sarei mai più lamentata, lo giuro, ma avevo bisogno che quel dolore cessasse. Avevo bisogno di non sentire più quelle lame trafiggermi, quegli affondi tagliarmi, quella pressione spezzarmi le ossa. Non percepii nemmeno quando caddi a terra, con le gambe incapaci di reggermi in piedi sotto la pressione di quel dolore. Non vedevo niente attorno a me se non l'oblio di quello che sembrava durare da troppo tempo per essere vero; mi toglieva il respiro, impediva al mio cuore di battere, lacerato in quello che doveva essere un dolore che uccideva, ma che -invece- mi teneva in vita, troppo sveglia, troppo cosciente. Poi, non seppi dopo quanto, se dopo un secondo o dopo decenni, cessò. La mia schiena si inarcò all'indietro, per dare più possibilità ai polmoni di espandersi, mentre mi contorcevo ancora sul pavimento, memore di un dolore che avevo troppo paura tornasse. Sorpresa di riuscire a respirare, cercai di voltarmi, con i sensi ancora alterati, mentre a difficoltà mettevo a fuoco quello che c'era attorno a me, quando sentii, percepii vagamente una sensazione di freddo corrermi dal collo lungo tutto il braccio, come se una brezza si fosse infilata sotto i miei vestiti. Fu quasi piacevole, dopo quel bruciante dolore che mi aveva sconvolta, inconsapevole di quello che la mangiamorte, ancora lì al mio fianco aveva intenzione di fare. Persa, confusa e terribilmente debilitate, cercai quasi di alzarmi, mentre la stretta attorno al mio collo di era un po' allentata, sintomo che quell'Incareramus stava finendo il suo effetto quando un altro dolore mi tolse il fiato. Ma ancora non era finito? Questa volta, però, era concentrato, profondo, umido, quasi più reale, ma non per questo più intenso. Sentii un liquido caldo bagnarmi immediatamente il collo ed i vestiti, mentre prendevo fiato e, finalmente, riuscii ad urlare. Squarciai l'aria in un urlo acuto, un pianto disperato, che avrebbe fatto sentire a chiunque quello che stavo passando. Neanche mi chiesi cosa stesse facendo, perchè o come. Ebbi solo modo di stringere forte gli occhi, cercare di dimenarmi, ma sentendo una mano premermi forte contro il pavimento freddo. Urlai ancora, chiedendole di smettere, mentre quel taglio scendeva in un disegno che non capivo, ma che era troppo profondo, mi lacerava, minacciando di arrivarmi ai polmoni e togliermi ancora la capacità di urlare, unico sollievo che mi era stato concesso. Poi, anche quello cessò, lasciandomi a piagnucolare, stremata. Ora, anche se l'Incarceramus si fosse dissolto in quel momento, non avrei avuto la forza per muovermi. Voltai il viso di lato, facendo ricadere la testa su un lato e presi fiato, per poi sentire un bruciore sordo, laddove mi aveva lacerata. Una pressione bruciante e sporca su di me. Piagnucolai, urlando un flebile "Basta", ma senza la forza di reagire, quando, con gli occhi annebbiati dalle lacrime, intravidi quella figura sorpassarmi e lasciarmi lì. Il pavimento sporco di quella pozza di sangue riflettè la scena, che mi fece raccapponare la pelle. Non riuscii a vedere cosa avesse scritto, ma con il mio sangue, contro le porte della Sala Grande, aveva lasciato un messaggio, che risaltò cremisi contro l'oro delle decorazioni. Inspirai, con l'odore caldo e ferruginoso del sangue a riempirmi le narici. Quando profonda era andata per far uscire tutto quel sangue. La vidi sparire oltre la soglia, con una risata, prima di sbattere gli occhi, liberandomi delle lacrime, che mi offuscavano gli occhi e che scesero ad unirsi al mio sangue. Siamo tornati, lessi, poi la vista di offuscò di nuovo.

    #7F4E52 Parlato #cb9285 Pensato
     
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    Lucian Blake , 34 anni, Insegnante

    "Hearts don't break around here"

    Quasi mi dispiaceva che quel periodo di orientamento stesse volgendo al termine. Mi ero iniziato ad abituare ad essere tornato al castello e a tutte le cose che comportava. Trovarmi lì, con la consapevolezza di un uomo e non più il fascino del ragazzino, era soddisfacente a modo suo e mi aveva dato la possibilità di rendermi conto davvero di come il tempo fosse passato, non solo nel mondo, ma anche per me, che credevo di essere rimasto fermo nel mio libro personale per un decennio. Quel giorno avrei dovuto incontrare una giovane Grifondoro del sesto anno, la Prefetta di Grifondoro a quanto avevo avuto modo di capire ed ero incuriosito di vedere dove quella conversazione ci avrebbe portati. Avevo imparato che gli studenti avessero spesso un’idea contorta dell’insegnamento ed avevo trovato stimolante discuterne con loro, fino a riuscire a raggiungere una quadra, un punto di incontro tra la mia visione e la loro. Certo, non era stato così per tutti, molti avevo avuto l’impressione si fossero presentati solamente per saltare una lezione o due, ma in altri avevo potuto scorgere del vero interesse. La ragazzina di quella mattina avrebbe voluto studiare Erbologia, in particolare e la cosa mi fece ridere, visto il mio recente e non troppo pacifico rapporto con le piante. Ero nell’ufficio del Professor Adkins ormai da una manciata di minuti e della studentessa ancora non c’era l’ombra. Mi concessi di aspettare solo una manciata di minuti, dandole la possibilità di arrivare – sperando avesse una giustificazione per il suo ritardo – per poi decidere di lasciare la stanza. Avrei fatto un giro per i giardini, magari, così da non farmi trovare nel caso avesse deciso di presentarsi a metà del nostro appuntamento prefissato. La puntualità era essenziale, secondo il mio punto di vista, ma proprio mentre avevo lasciato l’aula di Pozioni, sentii il sangue gelarsi nelle vene. Un grido. Un urlo straziante, di dolore. Un urlo che da solo avrebbe potuto far crollare il castello intero. Non riuscii nemmeno a pensare, cercare di razionalizzare la miriade di pensieri che mi affollavano la testa, semplicemente corsi verso la fonte del suono, andando ad afferrare la bacchetta con la mano. Lasciai i Sotterranei in un batter d’occhio, ma non abbastanza per intercettare chiunque avesse fatto quello. A terra, distesa in mezzo ad una quantità di sangue che non avrei mai più sperato di vedere, si trovava una ragazzina, una Grifondoro. Corsi, gettandomi a terra ed andando per prima cosa a controllare che respirasse. Il mio tormento che tornava. Le presi il viso con una mano, voltandolo verso di me, asciugandole le lacrime con il pollice. Resta con me, sei al sicuro ora. Dio, come avrei voluto fosse vero. Fu a quel punto che notai la fonte del sangue: una ferita che prendeva la forma di tutti gli incubi degli ultimi giorni. Le puntai la bacchetta contro, deglutendo. Emendo. Non avrebbe fatto miracoli, ma almeno avrebbe aiutato a rimarginare i tagli in attesa di qualcuno che ne capisse più di me. Poi le misi un braccio sotto alle spalle ed un altro sotto alle gambe, sollevandola e prendendola in braccio. Maledissi le stupide regole di quel castello contro la smaterializzazione, lo stesso castello in cui però era stato possibile fare una cosa del genere ad una ragazzina. Chi era stato? E dove era ora? Erano in giro per la scuola a fare lo stesso a qualcun altro? E Irene? Scossi la testa, cercando di restare il più lucido possibile, più per la biondina che per me ed iniziai a camminare verso l’infermeria, mentre – con la bacchetta ancora in mano – evocai un patronus da mandare al Preside. Doveva chiudere tutto, doveva assicurarsi che gli altri stessero bene. A quel punto, lasciando la pozza di sangue alle mie spalle la vidi, quella scritta rossa che troneggiava sulle decorazioni d’oro. Sbrigati. Pensai, lanciando l’incanto, prima di riprendere la mia corsa verso l’infermeria.


    #005757 Parlato #008080 Pensato
     
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