|
|
|
Sospirò, Astris, stringendo le labbra in un’espressione dispettosa.
Voleva davvero togliersi quel dente, levarsi il pensiero e andare a dormire: aveva sonno, si era annoiata, e per tutto il viaggio aveva sentito troppe chiacchiere. Le ronzavano le orecchie, ed il bambino davanti a lei aveva un odore strano.
La Sala Grande li aveva accolti con un gran rumoreggiare: tante teste variopinte si erano voltate e lei, infastidita, si era ammusonita. Pareva un carlino, come quello dell’amica della nonna.
Sua sorella sedeva qualche tavolo più in là, e la osservava con divertimento accompagnata dai suoi amici Grifondoro, aveva persino sollevato una mano per salutarla: Astris si era girata dall’altra parte, per niente desiderosa di farsi prendere in giro.
Era emozionata, il suo cuoricino batteva fortissimo nel petto e si sentiva le ginocchia secche tremare per l’impazienza, ma non voleva dirlo. Si teneva una guancia tra i denti per non sorridere, i pugni chiusi per non agitarsi. Sembrava un blocco di marmo, ma dentro bruciava di una fiamma caldissima e prorompente.
Ma non avrebbe dato loro alcuna soddisfazione, non avrebbe dato a sua sorella la soddisfazione di avere ragione.
Sybil le aveva detto, ridetto e stradetto, che non avrebbe contenuto la contentezza di trovarsi al castello e lei non voleva assolutamente farla gongolare. Piuttosto la morte, dannazione.
La donna in ampia gonnella che li aveva accolti non si muoveva, sembrava temporeggiare, e la bimbetta difficilmente amava pazientare: quella sera non era di certo da meno, e pareva non sentire neppure lo scorrere dei nomi.
Era tra gli ultimi, lei, e spese il tempo ad osservare questo e quel volto: gli zigomi spigolosi di un serpeverde moretto con la faccia da cavallo, le guance paffute di una corvonero che, di soppiatto, lanciava occhiatine ad uno due tavoli più in là.
Quando finalmente udì il suo nome, si riscosse: mosse la testa rapidamente, come ad allontanare le nebbie dei propri pensieri, e partì come un soldato in marcia. Come il membro di una truppa.
A passi lunghi e ben distesi.
Sorrise con un angolino della bocca alla professoressa, al cappello e probabilmente anche allo sgabello, fingendo di non avere le gambe di gelatina ed il cuore in gola.
Infine le fu poggiato il cappello su quella testaccia sprezzante, e le parve che anche quello puzzasse un po’.
|
|
.
.
